dimecres, 28 de desembre del 2022

Corale Rotto di Vicent Andrés Estellés

 Corale Rotto

CORALE ROTTO di VICENT ANDRÉS ESTELLÉS

(traducció a l'italià de Francesc Collado)

A Salvador Espriu
-1-
Si com l'infant que sap pel carrer seu 
prou bé anar... 
Ausiàs March.
Un’amabile, una triste, una piccola patria
tra due luci, di negozi antichi,
di coppie lentissime, di bambini in piazzetta,
di nobili campane e grandi letti di canonici
un ingiallimento di pianoforti guasti,
nel frattempo, l'umidità inzuppa il marciapiede.
- ci sono foglie di lattuga sparse sulla terra -,
il bacino tra le gambe, il rosario in famiglia,
la corda nella scala – la strada della Mar
via del Miracle- e la figlia maggiore
a ricamare iniziali coniugali nel cuscino,
il nonno cadavere tra quattro torce,
i tarli nel tavolo. Una lenta tristezza,
un amore, qualche lacrima, una povera nostalgia.
Sono rientrato. Da qualche tempo che non ero rientrato.
Le piastrelle bianche, odore di aghi di pino.
Tra due luci trascorro qualche strada.
So che oggi ho bisogno di trovarti, domani -non lo so.
Non voglio neanche sapere. Non vorrei sapere.
Sentirei allora qualche tristezza bruta.
Ti ho spogliato di tutto quello che a me piaceva.
Di tutto quello solo ne resta in te la gioia.
Io solo cerco in te la gioia della vita.
Soltanto quella gioia. Solo, solo, solo!
Ora che son in procinto di essere più triste di mai.
Ora che resisto debolmente ad essere triste.
Ora che ho solo la voglia di essere felice,
ora che questo desiderio è la sola cosa che mi sostiene
intanto vado, vengo e riprendo e taccio e non dico nulla.
Attraverso delle strade, tra due luci,
e sento il vicinato nascosto dalla gioia
e girato il cantone credo che morirò.
Segnali solo, di te. Delle coppie lentissime,
ancora speranza. So che ho bisogno di vederti.
Resisto a farmi credere che ho già perso tutto,
che ho perso il mio diritto, voglio dire, alla felicità,
che ho perso il mio diritto, voglio dire, a te, a tua
compagnia, alla tua gioia di vivere.
Ho perso tutto, ma a te non ho ancora perso.
Ancora vivi oh te. Ancora vivi, e su di te so.
Nel giorno c’era mercato. C'è solo odore di pesce,
dell’umidità, in terra, sporca e appiccicosa.
Era allegro d’amarsi. Affermativamente
andavamo per le strade, tra esseri e cose.
La vita era una strada con dei camion e fidanzati
e bambini e lenzuola appesi sui balconi,
e sopra di tutto un chiasso di ferri
e di fischi dei treni che andavano e venivano.
C'era l'uomo quello che vendeva i giornali
e la ragazza, in bianco, assediata da tutti.
C’era il Monastero di Santa Clara nell’aria
del crepuscolo calmo, come luce delle case.
e una fatica tanto dolce e una segreta pena.
Ci sono dei poeti che quando si dispongono a scrivere
mettono sul tavolo il posacenere, le forbici,
il gasdotto, la secante e molto altro ancora.
Calcolano la distanza dalla testa alla carta.
Discretamente saggiano poco dopo in contegno.
Alla fine, scrivono, e scrivono delle cose accurate,
forse rinascimentale perfettamente inutile,
senza delle quale gli uomini lavorano, amano, muoiono.
Ci sono dei poeti che, quando scrivono, in un posto
lasciano cuore e orologio – fastidia il suo tic tac
de tarlo che rode sul povero legno umano-;
prima si garantiscono che i loro figli dormono
e dorme la sua moglie, e poi si tolgono
i versi come se fossero fotografie di una "vedette"
- ogni verso ha un’imbecille presunzione di "vedette"-
e considerano, gravi, ciascuno dei suoi beni.
Ora passa un tram sulla strada di La Pau.
A me piace, di notte, ascoltare i tram
(i tram di notte, forse passano tutti pieni
di grande pesce e donne annegate e gonfie).
Qualche giorno scriverò un libro, un libro con il tuo nome:
bisogna arrivare un giorno in cui dirò tuo nome segreto,
un nome come un sasso di fiume, ammorbidito,
un nome come un fiore impensabile in un margine
un nome festivo di vigneti e il crepuscolo nel mare,
un nome come un “riu-rau” con le vocali aperte
e la brezza dal mare per la calligrafia.
Dans l'ombre, dans les yeux, dans l’incendie du bois.
Ricordo Dominique. E ricordo il muschio
crescente tra le pietre nel cortile di Sant Roc.
Si tratta delle lastre blu, quasi blu dico meglio.
Da una parte si vede il mare sopra i pini.
Il tic-tac dell'orologio, le carte del giornale,
le inondazioni nel delta del Po,
il desiderio amaro di tornare con insistenza
al mio Corale rotto, e questo mal di testa
che non posso mai togliere. Ho non so quanti giorni,
ho non so quanti mesi senza scrivere neanche un solo verso.
Son capitate a me troppo cose. Forse tutto sia ciò.
Ora però bisogna che io scriva certe cose,
certe cose che dovrebbe mai leggere nessuno 
che nessuno deve capire fino a quando io sarò morto
e sia tardi e sia perfettamente inutile:
io so, e non dico, chi si strapperà la carne
con le unghie, piangendo tutta una spessa estate.
Forse non ho mai sentito un bisogno
così selvaggio di scrivere. Fa male la testa, comunque.
Non so quante volte ho smesso di scrivere
per ciò, per questo mal di testa che non mi lascia.
Ora mio figlio dorme. Credo che ora mio figlio
dorme la, nel mio villaggio, accanto a sua madre.
A volte vorrei essere come altri poeti
ed aver scritto alcuni versi onestamente rimati
dove dire la gioia che spesso hanno
gli occhi azzurri di mio figlio, oh e i suoi capelli biondi,
le sue guance sottili come un verso mai scritto,
come il verso che non ho scritto, ma che ho voglia di scrivere
- come di una monarchia europea del Nord.
Mi piacerebbe dire: ora è passata una macchina,
faceva un piccolo rumore su l’asfalto bagnato
come se essa andassi staccando dei petali dell’asfalto.
Non è ciò esattamente. Dans l'ombre, dans les yeux.
Un ginocchio. Ora vedo, ora penso un ginocchio.
Il ginocchio di una ragazza come una primavera
come un ginocchio di fanciulla. Forse pensavo
allora in un ginocchio piuttosto specifico.
Il ginocchio detto però è il ginocchio che penso,
vagamente sciocco... ¿Perché ho detto prima
la primavera arriva come un ginocchio di ragazza,
se è ora quando lo vedo, se è ora quando ci penso,
se ora è quando lo so e no quando scrivevo?
Un vicino scrive a macchina. Scrive molto lentamente:
forse scrive cercando lettere una per una.
Scrivo anch’io molto lentamente, con lettere in piccolo
A masticare parole, come un briciolo, una per una,
in un piccolo taccuino. Il mio desiderio sarebbe
di essere tutta la vita a scrivere, con la lettera
piccola, un brano lungo e dolorosamente lento,
lento e grigio, a bassa voce, nella casa in silenzio,
lavorare in silenzio complicate capitelli
- ora ne ricordo alcuni: gli son veduto in León -,
dolci curve di amore, una silenziosa offerta
di tutti i giorni, un’offerta zitta per chi amo di più
e non lo dovrebbe mai sapere. Tu sei, forse, chi amo di più.
L'ho scritto e mi sono fermato. Voglio, in te, la gioia
domestica di vivere, il principio di un ordine
che io so e non voglio dire; ed ormai non è ciò neanche.
Oh, tutto è impossibile, assolutamente impossibile.
Lo so e non posso piangere, né quasi pentirmi.
Guardo semplicemente, guardo e taccio. Ricordo a te.
Voglio in te tutto quello che significhi, chiara,
con una vita svelta, come una fonte in piedi
dove l'aria si può lavare come lavo mia anima.
Abbi pietà di me, abbi una povera, una triste,
un’amorevole pietà! Ho raggiunto il massimo
della vita; vorrei che tuo ricordo fosse in me
la pace, ora ormai sì. Mio Dio, che la sua memoria
ora dai a me la pace, a me significhi pace
e lasciare a me teneramente in questo posto dove mi trovo.
Angeli che tanto volete me che ho raggiunto a sentirvi
che prendete all'improvviso mio polso quando io
stavo per scrivere qualcosa che non doveva scrivere!
Non mi lasciare! Non mi lasciare! E tu, mio Dio,
Tu che mi volevi forte e vincitore e chiaro,
non voglio che guardi me, che forse son caduto:
devo alzarmi, lo so, e devo essere come volevi
che io fosse, come vuoi ancora! tutti i giorni, che io sia.
Devo essere come Te mi vuoi. Devo essere come Te vuoi.
Mi sono fermato un po’. Ho sudato la mano.
La mano si appiccicava, scrivendo, sulla carta.
Non scrive adesso il vicino. Ora si scolta il rumore
dell’acqua in un lavandino. Non ho detto: sono solo;
sono solo in casa mia. Guardo un attimo i mobili;
ho passato una mano delicatamente sul tavolo;
mi son ricordato che ho, in un cassetto, in una busta,
una manciata di documenti, le fatture dei mobili.
Le sedie, il tavolo, il letto, il cassettone,
un piccolo tavolo per la cucina ... Facevamo
a poco a poco lo acquisto, esitando, calcolando,
rinunciando ... Ricordate? Poi cominciammo
ad andare rinunciando, per ora questo, domani quello ...
Dovevo essere triste quando mi ricordo,
ma io non sono per nulla. Esattamente, mi ricordo,
lo ritengo, lo penso. E 'stato, solo, l'inizio.
Abbiamo rinunciato, dopo, tante volte
a tante, tante cose che erano il nostro, tutte cose nostre!
Era un caseificio al di fuori di via San Vicent.
La lattaia giocava perchesi con il figlio;
noi ci siamo baciati per breve tempo in un angolo.
Tu disegnavi bambini su un pezzo di carta.
Io volevo un amore come quello di Beatrice
discendendo in Inferno a vedere Dante,
e pensavo Colonne fiorentine, sottilissime,
terribilmente svelte, come quelle di Fra Angelico.
Mi rifiutavo di vedere lo sporco delle mura,
il terreno e le lattine e gli amanti e i gatti morti.
A volte le cose non accadono solo perché sì.
Ci sono clausole nascoste che determinano,
facendo e disfacendo ciò che è nostro, e invece
non contano su di noi, non ci espongono il problema:
ci ignorano completamente. E 'terribile, se si pensa.
Non so quello che volevo dire. Son dovuto partire
in cucina, bere, e ho dimenticato completamente.
Forse è valido però quello che ho scritto come l'ho scritto.
No, no: lei ha sbagliato. E’ il dieci-otto-cinquanta.
No, no. dieci-otto-cinquanta. Eccolo! Prego.
A te, che ridi, dico, e ti chiedo di ridere,
non smettere di ridere se non vuoi che io muoia.
Ricordo come ridi, e perché ridi ti amo
e ti ricordo e non smetto ormai a pensare a te.
A te che ridi, a te, vorrei avere
per sempre al mio fianco, ridendo, perché ridi,
e ridi con tutta l’anima e ridi con tutto il corpo,
e ridi, amore!, con tutta la tua giovinezza
e con la salute dorata dell’arancia aperta
con le dita, con le unghie, selvaggiamente felice!
Potrei dire come sei dalla testa ai piedi,
ma voglio sapere solo questo: che ridi,
ed evocarti ridendo e volere te a ridere,
e desiderare che tu ridi -solo, solo, solo!
Non lo sai, non lo sai ... I lunghi corridoi,
stretti e tortuosi, i fiocchi che vengono
a volte sotto i letti ... Non lo sai, non lo sai!
Io vedo il cielo viola, le mura, le torri,
i mandorli, le colline rosate, in carne viva
-l'omaggio reso, mentalmente e fugace,
a Muñoz Degrain, senza convinzione
In certo dipinto che c’è, entrando, a sinistra ... -,
ma, prima, il grande fuoco, la solitudine e il fuoco
a vedere dalla finestra, e tra gli alberi, il fiume,
l’illustre ampliamento degli edifici, l'ordine,
e di là delle vigne, alcun paese, un po’ di fumo
dolce e amorevole, e ora questo, e questo freddo
un freddo inverosimile, ed in mezzo a tutti, non so
una tenerezza nascosta, una certa tristezza
come se non riuscisse ormai a tornare di nuovo,
come se questa fosse ormai l'ultima volta,
come se doveva già dire addio e fosse ormai tarde,
come se mi vergognassi, anche, a dire addio,
o di sembrare retorico. E l’addio, come un osso
un piccolo osso, attraversato brutalmente in gola.
Sai già che è arrivata l’ora di andare dicendo addio
di andare tagliando, ultimando, specificando
la speranza. Un affare triste e assai necessario.
Devi congedarsi, con affetto, con tristezza,
di ciò, di quelle cose che sono più cari,
illusioni che non possono essere fatte,
poiché è tardi, è già tardi, assolutamente tardi ...
Andare, già a ridurre, limitando i desideri,
ormai le illusioni su una cosa sola ...
Addio, addio, addio. Non è che le cose muoiono;
né anche se ne vadano. È una è una. È una ...
Il tramonto piccolo e triste e accattivante
di queste strade antiche che a me piazze andare,
dove vorrei vivere e scrivere versi grigi,
assolutamente grigi, mentre brucia lo spigo
su delle quattro braci, un tavolo piccolo,
su di lei una coperta, le mura con carta da parati,
una piastrella soltanto po’ sciolta, e credere dolcemente
che Campoamor fu un poeta formidabile,
che “El Ama” è un poema di quelli che pochi se ne scrivono
e leggere ad alta voce alcune rime di Bécquer
e sdraiarmi, e non dormire, pensando solo, pensando
che devo scrivere un poema in ottave reale
e non come i poeti di oggi giorno, che di solito
non rimano perché è difficile. Vorrei, io voglio
credere che sia necessario scrivere tutti i versi
bene consonati e ubbidendo certe leggi
e in un valenciano molto nostro, molto nostrano
come si dice, con un indice irrigidito improvvisamente
uomini che hanno il titolo di Maestro in Gai Sapere
e dire di no, che ciò che il valenciano
è catalano non è vero, che ciò è un tradimento della Patria,
la terra in cui uno è nato e che no, figurati, che no,
e non ficcare il naso, e bene, e andiamo fare,
fare un anno il libro di versi di una “falla”
e raggiungere come sia che il Rat Penat mi dia
almeno un piato di gloria, e di passare la mia vita
a ottenere Viole ed Eglantine e menzione.
Un mondo piccolo e tenero, positivamente tenero
il gatto sopra i piedi, il tarlo nella sedia,
piu tardi il cruciverba, e domani se Dio vuole.
Come il caso della vedova che ho appena conosciuto.
E 'giovane e ha una figlia. E sembra che non sia vedova.
Sembra che è avuto una figlia di un uomo,
che non ci sposarono. E 'ancora piuttosto bella.
"Non è niente di entusiastico", commentano in ufficio
dove di solito lei porta dei caffè con latte.
"Io l’Ho visto nel Coli." "Che cosa vuoi dire con questo?"
"Io? Io Non voglio dire nulla. Lo dico, Io ho già detto”.
"Se non stai zitto, ti rompo la faccia..." "Davvero, lei?" "Io!"
Isabelle ennuyeux, quand les pins, quand le soir.
Una ragazza in verde e una ragazza in rosso
e una ragazza in bianco e, vibrante, le trombe,
le trombe lascive che non perdonano nulla
e suonano-e fulgorano- durante tutta la notte,
e il sudore nei volti, come di legno, dei negri;
il rumore di un tram che gira in quell’angolo,
la coppia che attraversa l'aperto verso il muretto;
tra il fumo, gli fischi di treni, i lampioni rossi;
l’acqua cadendo, calda, delle locomotive;
le piante dei gerani tutte piene di fumo;
le figlie della vedova che scendono in strada
e la madre gli guarda dietro dei vetri
della sala da pranzo al buio, le trombe del ballo,
le trombe lascive, e invitte, e crudele,
L'attacco brutale che ha l'acqua dei cessi,
il fulgore delle ruote fermate dei treni,
il fulgore dell'acciaio. Il bambino salta il muro;
Dietro dei vetri, facce di genti che dormono,
guardano senza interesse, sperano in tutti i casi:
un sudore, degli oli, qualche goccia spesse ...
O adorata! Ora mi salvo. Ora ti penso, oh terribile.
La gioia è la parola che mi resisto a scrivere.
E ' venuto il momento di dire - no a cantare
la gioia, forse. Eco qua il mio mestiere.
Ho un lavoro, da ora, per te.
Insistere brutalmente, da ora, nella gioia.
Da te mi viene, da te viene a me, o viene dal fondo del tempo.
E non è neanche così. Non si può formulare.
Poiché non è una gioia. È -lo so! – la gioia.
La gioia in minuscola, viva, di tutti i giorni,
cosa di ogni giorno, di andare e rientrare:
alla fine di vivere, di essere nato, di essere,
di questi piedi, di questi occhi, delle mani, dei denti,
Di tutto questo che ho, e avendo ciò, ho tutto
o può, in un momento, aver tutto, o credere ciò.
Ora è quando vedo l'Italia. Non l’ho visto prima.
Le trombe oscene, il sudore nei luoghi
La dove le mani insistono. Il cielo come un lenzuolo.
In carattere bello piccolo, in un piccolo quaderno
una canzone d'amore che non ha mai scritto uno.
Vorrei bussare alla porta della tua casa, la porta
aprirebbe un po’, tu devi essere in piedi,
con una mano sulla porta, l'altra lunga tutto il corpo.
Entrerei nella tua casa. Poi di me so, felice
dicendo cose gioiose e veramente stupide,
e tu in una sedia, inoltre, in un angolo
con una mano sulla porta, l'altra lunga tutto il corpo.
In caratteri minuscoli, in un piccolo quaderno
drammi che non conoscono, latenti tragedie
tutto ciò che non accade, ma c’è, comunque.


- 2-
Amb molts testimonis i grans inventaris 
i ab actes rebuts...
Bernat FENOLLAR
Senti, amica – direi - : le cose, certe cose,
non accadono perché sì. Ci sono delle clausole segrete
ci sono processi nascosti, ci sono assemblee generali
intorno a un tavolo di pino abbastanza rozzo e povero
su di cui ogni tanto appende una luce miserabile.
Conosciamo i risultati, i brutali risultati
che ci fermano improvvisamente, come un fulmine nel camino.
Potrei illuminare a te il passaggio che evoca
la via di Damasco, ma non è necessario.
Ora, guarda, la sera, i boschetti, il fiume.
Il re parlando a Curzio: vedi, se hai capito bene.
Non c'è ancora tempo, amica, che gli alberi - gli alberi
verdi e svelti dal giardino- diventino donzelle.
Ora vanno tra gli alberi, nitrendo, i cavalli.
Ci sarà un tempo in cui gli alberi diventeranno donzelle,
verdi donzelle nude, terribilmente svelte
e tra loro, dei cavalli, nitrendo come uomini
quando arriva il momento che essi non possono più.
Vedremo quindi porcellane amabili
Porcellane che anno di lenti disegni ottiche
tutti fatti di radici inutilissime: formicai anagrammi
come quelli che tutti noi abbiamo nelle palle degli occhi,
piccole mappe ottiche dei paesi dove siamo
destinati - perché no ? - dal momento della nascita:
il paese che ci devono, non abbia nessun dubbio,
Il paese di cui siamo amare esiliati.
In ogni occhio abbiamo, magari, un emisfero,
tristemente disegnato in linee di sangue,
-O forse, dopo di tuttoin linee di terrore-
E là dove non abbiamo potuto raggiungere quando siamo nati
Per ciò, perché siamo nati probabilmente
Cose folli, delle cose dette per non tacere.
Ebbene, adatto, d’accordo. Ma quindi che ne dici di questo?
Le Porcellane condotte da "chez Proust" in Cina.
Quella di Mao Tse Tung… E 'come se scrisse
una poesia in un chicco di riso dipinto di verde.
Lo vuoiSì, sìQuando Svetonio parla
Di Tiberio ... E 'importante ricordare Svetonio.
Ora sto vedendo Capri come non l'avessi visto.
Mi sono ricordato la calce ammollendo le pareti.
E alberi di olivo e vigneti, e barche, e peccati.
BeneIn seguito, ricordiamo quell’orribile estate
con la morte alla schiena o tra il petto e la schiena,
somigliava una colombella calda di fango e di calce,
e la camera, molto biancala clinica,
la persiana verdeil curato accanto
dal suo letto, alla testiera. Sapemmo –credo che ho detto!-
il risultato. E 'abbastanzaOra penso di sì
domani, dopo domani, io vorrei probabilmente
sapere tutto completamente. Oh Amica, oh tenera amica.
Non ho niente da dire. Diventa semplicemente.
Perché vuoi che io parli? Non è abbastanza? È che non basta?
E ‘come se si prende un qualsiasi giorno,
un giornale e camminare parlando di tutto ciò
che il giornale parlava, e via, e questo è tutto.
Ora il castello naufraga tristemente nella nebbia.
Ora il re galleggerà su un letto di nebbia
Ora le porcellane galleggeranno nella nebbia
I nitriti dei cavalli annegandosi nella nebbia
Diventeranno le ragazze amare alberi di nebbia
Jacques Prévert scriverà triste canzone di nebbia
Ora camminerà Simone Signoret per la nebbia
Ora resteranno inzuppati di nebbia i marciapiedi
di Parigi e le lastre del cortile di Sant Roc
e le torri di Amleto, i versi di Rimbaud ...
Saranno arrugginite le opere di Carné.
Scenderà la nebbia tra gli specchi del castello,
i gradini spessi, per le vecchie catene,
per lo scudo della contea, per la nobile sintassi,
dai degni episodi, dagli indimenticabili crimini,
per tutti le offese che sono ancora in carne viva.
Amica, amica, amica! Oh amica più che mai!
Dove sei? Dove sei? Ti chiamo. Ho bisogno di te, amica!
Ti voglio al mio fianco per tutta la morte!
Dove sei? Dove sei? Ti chiamo. Non posso vivere senza di te.
Dove sei? Rispondi, amica! Torna indietro. Non te ne vai.
Non lasciarmi qui da solo, terribilmente solo,
A sentire come l'umidità mi cade dalle ossa
In gocce che putriscono il mio intero cranio!
La contessa è morta di dolore in attesa
al ritorno di suo figlio. Oh vecchia, oh triste Europa!
Che cosa faremo delle guerre greche che sono in chiostro?
Che, dei sarcofagi, dei capitelli, dei marmori?
Je suis un citoyen pâle au milieu des morts.
Ora hanno commemorato Ovidio in Italia.
Non ho trovato da nessuna parte una traduzione
onesta da Horace. I damaschi antichi
lungo il corridoio in ombra, tra la finestra gotica.
In piazza, sotto i portici, c’è la fonte
La fonte antica e sporca, e poi i negozi,
i negozi antichi e sporchi, un vicolo,
delle pietre ebraiche con breve iscrizione,
una finestra piena di tenebre. Poi
cercavamo una via rumorosa di cipressi;
lo trovammo molto tardi e non siamo andati;
rientrammo in hotel. E 'stata la prima notte.
(Trascriverebbe l’Epistola di Tarragona. O benne
L’Egloga a Catalogna e pochi versi più)
Per la prima volta siamo stati insieme sdraiati e nudi.
Mi ricordo le lenzuola, bianche. Siamo stati molto felice.
Di mattina rientrammo nella via dei cipressi;
abbiamo visto la Cattedrale. E vedemmo il mare.
Il mare era lì e non lo avevamo visto
e noi due ridemmo. E tacemmo all'improvviso.
Ci ricordammo, nudi, nella stanza
Tutta nel buio, così nudi tra le lenzuola così bianche.
L'altro hotel era diverso, tutto era diverso pure.
Sono tornato di nuovo. Oh Vecchia, oh triste Europa!
Et je vis devant moi au fond d'un carrefour. 
Mentre scrivo, mentre cerco di non morire del tutto,
mentre la notte segue, pur non fermarsi i tarli,
mentre i camerieri scopano, mentre cadono gli spruzzi.
Che cosa rimarrà alla fine? Gironella ha scritto
da Papini. Ricordo la cronica abbastanza bene.
¿Papini a Sancta Croce? Sarà ormai trasferito?
Penso la testa di Papini come una testa di Beethoven.
Penso la testa di Papini come quella di un annegato,
fatta con le aderenze successive di argilla
fatta dai petali di argilla, a colpi, con rabbia,
come di uno scultore violento con il dito
grosso toccando, insistendo, premendo, riparando,
con un pollice orribile, tutto sporco di nicotina.
Poi si toglie il fango e poi emerge,
nobile, la testa di Beethoven. Emil Ludwig. E la testa
di Emil Ludwig, di Goya, di Quevedo? In Sagunto
c’erano alcune teste iberiche: tu non hai voluto vederle.
Neppure volevi vedere un fango molto erotico.
E nonostante ... Le colonne, i templi, le statue ...
Va bene. Sì, certo. Ma nonostante ... Va bene. Taccio.
Direi a te: Allora ... E poi? Non capiresti.
Non mi voleresti sentire. Sarei stato solo.
Vedrei a te con un fondo di ulivi e vigneti.
L'aria direbbe il verde vicino del mare.
Mi renderei triste. Non saprei cosa fare.
Vorrei essere più povero, queste notti d'inverno.
Io vorrei guidare un camion, di notte,
per la Francia, da Leon: vorrei andare in Arevalo.
Tout est mort en Europe -oui, tout- même l'amour. 
Attraversare Arevalo di notte, di notte e con camion.
Tordesillas, Arevalo, Astorga, Rodrigatos
dell’Episcopale, e poi Villalibre
della Giurisdizioni. Una memoria delicata
a Margaret O’Higgins, senza reggiseno
Per i percorsi di Corea tra i soldati e polvere,
i capezzoli divertenti e poi irritate.
Mangiare e bere dove mangiano e bevono i meccanici.
Oh Anna della rosa tatuata sul petto!
Il salto definitivo. Raccomando tenebre.
Ascoltando Carossone, come piove nel cortile,
come vanno per il piano sopra, come passano la strada.
Vedo guerre, tutto l'orrore della guerra, le acque
del Tevere tutte rosse di sangue. Vedete l'Eneide:
consultare gli oracoli, consultate, consultate..!
E 'come se le parole portassero a me
non più al canto, in certi luoghi, a chiarezze, risposte
alle domande che non aveva mai formulato,
Non sapevo che potessero essere formulate,
che... Buona notte, buon giorno. Un vento, un vento di sabbia
un vento pieno di riso che riempi tutto il pomeriggio
dei buchi piccolissimi I legni del cognac.
Oh vecchia, oh triste Europa! In casa dell’erborista.
Non succede nulla, non succede nulla in particolare.
Quindi, forse, l’astronomo assediante, di notte,
allusioni chiarissime a tutti ciò che era perduto
quando tutto ciò di Adamo ed Eva, ostinate, forse,
che, sopra la notte, è il giorno inattaccabile.
Non male. Un astronomo assediante, spiando,
mangiando, a morsi tondi, il loro pane con olio e sale.
Diventa semplicemente. Norma Talmadge è morta.
Gentilmente scettica, considerando solo
I cumuli di spruzzi, volendo fare versi saffici,
lasciandomi l’esistenza a pezzi per gli angoli,
desiderando una roccia dove sedere e aspettare.
Lettere di ringraziamento. Quest’amore all’Italia,
quest’amore all’Italia che mi uccide di tristezza,
Che mi piove dal cervello, dagli occhi, dal cuore,
quest’amore all’Italia o l’acqua in cestino.
Soltanto direi ciò a volte: Italia.
E una triste retorica: sto morendo per te
Morirò per te un qualsiasi giorno.
Penso che il mio cuore, oh Italia, come una nave, come una
nave che porta il tuo nome scritto in lettere bianche
vicino alla prora. Il mio corpo la nave
chiamata Italia, persa nel mare, da sola,
volere, e di non essere capace di tornare a voi, tornare.
E 'molto triste: è un cuore il mio cuore che non può
tornare, e mai va avanti: solo facendo a insistere
volendo tornare soltanto, provare un’altra volta
in circoli successivi, tristemente insistenti.
Il sale brucia i miei occhi, mi mangia le palle
degli occhi tutto il sale di mezzogiorno, di un nome.
Mi trovo qui. Mi è stato detto che questo era il mio posto.
Forse no mi dissero. Ma questo non ha più importanza.
Oh sì, mi dissero. Mi hanno detto: Tu, qui.
Oppure non mi hanno detto. O sì. No lo ricordo.
E 'come se sì e se no. Come? Non lo capisci?
Nemmeno io. Ma io non posso dire: non o capito.
Sono partorito no per capire o non capire.
Sono partorito: semplicemente. Io non so nulla. Ma io
non posso dire: Io non so nulla. Se non avete capito
Ne lamentare ciò posso. Tutto è così. Buongiorno,
buonanotte. Come se sì come se no. Se sì come?
Come l'ascensore che porta su e giù le persone felici
e tristi e si ferma, per la notte, sia esso il canto,
con della gente su e giù, pieno di gente, di cestini,
a prendere dal pozzo l’acqua umana a volte cristallina,
quasi al punto di rottura, a volte torbida.
Così il canto, e il canto, pieno di persone e di cose,
o ascensore o cabina telefonica con il legno
grasso in alcuni punti, con un odore di gente,
con il legname untuoso di sudore in certi luoghi.
Fermo, a volte, con tutte le luci accese,
quando è notte. Così, d’ora in poi, il canto. Buongiorno,
buona sera, signori. Che cosa succede? Come vanno le cose?
Beh, abbastanza bene, si sa ormai. Oh vecchia, oh triste Europa.


-3-
E quan la persona està a la fi per passar, 
los àngels estan ascí en torn, mas hom no’ls 
veu; mas moltes persones santes o han vist, 
e l'ànima ja’ls sent, e quan hix del cors a 
tots los coneix: "¡Oo, sent Miquel, Gabriel, 
Raphael! ¡Oo, mon fill Peret, ma filla Cata- 
rineta, e ben siau venguts!"
SANT VICENT FERRER.
Fin dove sono arriva la musica del ballo.
Inoltre, di tanto in tanto, si ode il fischio del treno,
si ode il clacson di una macchina. E niente di più. 0 poco più.
Si ode, sopra di tutto, la tromba del ballo.
Tutto questo è nel crepuscolo: domenica sera.
Gli altri giorni si odono canzoni delle domestiche,
il rumore dei lavelli, dell'acqua tra le cose,
L'attacco brutale che ha l'acqua nei cessi.
Ora mia moglie ripassa una camicia.
Ho iniziato a scrivere senza sapere cosa dire.
Decido di non scrivere in un paio di mesi.
E ora sto scrivendo. Non voglio pensare, non voglio
sentire, lascio la penna per scrivere quello che vuole.
So già che la penna non scrive niente, che sono io.
Se volessi chiarire questo, probabilmente
Bisognerebbe pensare, occorrerebbe sentire,
ed io non me la sento. Lascio così come va.
Ora soltanto o voglia, forse, di nominare.
Succede a me ciò che non avrei mai creduto:
soltanto arrivo a leggere dei reportage, storie,
cronache di viaggi in Francia, per Italia,
Inghilterra, Germania. Ma delle storie attente
inevitabilmente ai dati esatti,
ai dettagli specifici: chilometri, alberghi,
cucina, musei, strade, gli orari dei treni.
Mi hanno dato questi giorni, opuscoli: sono i percorsi
che possono farsi in Italia. Seguo itinerari,
li vivo, città, collegando paese, città, utilizzando
orari dei treni, dei musei. Non andrò,
Io probabilmente non sarò mai in Italia
una settimana, un paio di giorni, ma questo lo penso ora:
che metto le mani sulle mappe, gli opuscoli,
io sono, in qualche modo che non so dire, in Italia.
Io non so bene perché metto tutta questa storia qui.
Ora ho un piede dolorante. Perché non ho detto prima
che ho un piede malato su una sedia.
Ora non si odono i clacson. Trionfano le trombe
miserabile del ballo: le coppie danzeranno
e premeranno i loro corpi appiccicosamente.
Ora si ode il fischio di un treno. Io non so cosa sia.
Porterà persone e peccati e speranze e lutto
e, sopra delle carni, molliche di pane.
Anche porterà miserie, cose inconfessabili
e uomini con apparecchi ortopedici, e lampade.
Mi ricordo di una storia di "Point de vue": a parlare
di Clermont-Ferrant: era un testo, un reportage
puntuale: Ora penso nell'ultima parte
di un romanzo di François Mauriac: il bambino
è morto, annegato, ed io penso il paesaggio
inciso da un rurale e lento Alberto Durero.
Oh Mein Papa ... sale una musica svelta
come salese tra i tubi l'acqua in la casa sola
e dà un grande desiderio di aprire tutte le fonti
e fare l’acqua rompersi della gioia nei livelli.
"Oh Mein Papa ..." (Le gambe, le belle gambe,
le gambe incredibile oh-oh- di Lilli Palmer).
Il campo di Burjassot e il campo di Borbotó,
La seccagna di Paterna e la seccagna di Godella,
e i cimiteri bianchi e le mattonaie rosse,
e il treno verso Paterna e quello che vieni da Paterna,
e poi quello di Llíria e più tarde quello di Bétera,
e quei tram gialli e casa la Conilla
e Beniferri con pioppi e canneti e sentieri,
e i grandi pini nel castello piegati sul canale,
e il treno di Burjassot, e il treno che sale a Llíria,
e quello che scende di Llíria, e quello che finisce a Montcada,
e la calce delle grotte lì per Benimamet,
e quello che finisce a Paterna e orinare nel cortile,
e il profumo dei giardini, la calce della parete
quasi blu con la luna, e il silenzio, e il treno
il treno di notte, che attraversa solitario la notte,
e il campo di Burjassot e il campo di Borbotó,
e la seccagna di Paterna e la seccagna di Godella,
e il Pla del Pozzo, e i masi, le capanne di Luna,
L’Alqueria del Pino, e il Pixador, e il maso
del Rosario e la casa del Saponaio e il pino,
e il mulino del sale e il libro che devo scrivere,
e il treno proveniente da Llíria e ciò che sale a Paterna.
Si ode l'ascensore che sale col suono dei ferri
e i quattro di famiglia -padre, madre e due figli-
Rientrando da trascorrere la domenica con i nonni
e sono guardando la ragazza del terzo piano, con faccia
di soffrire di mal alla testa, e passata la domenica
nel cinema, col fidanzato, e senza colazione.
Non lo so. Penso che dovrebbe chiedere Isabel
Che mi dica che ora è. Vorrei che fosse tardi
e Isabel, invece di dirmi che la cena
è pronta, mi disse che andremo in ritardo
al Giudizio Finale e non troveremo posto:
"Quasi tre quarti d'ora che vedo la gente passare."
Come ho detto, vorrei andare in Italia qualche giorno.
Vedere luoghi, musei, monumenti, paesaggi.
(Perché questa insistenza, che non mi lascia, in ltalia?
Un motivo che vi offro all’amabile saggista
o al biografo che un giorno desiderino studiarmi.
Di niente. Comandi. Lo sa: Misser Masco, 17.)
"Oh, vergine che mi fossi, in piedi come una patria!
A te dico, a te penso, come sei, di testa ai piedi,
e avrei voluto potenza sufficiente
per convertirti improvvisamente in una statua
in modo che non conosca la vecchiaia, le furie,
il dolore e la rabbia distruttiva di vivere ".
Se un giorno vi diresse che hanno ucciso la Morte
non chiedere, amici, chi è che ha fatto.
Sarà un padre. Sarà un padre o una madre.
Parlo di Beniferri. Non ho altra scelta.
Ricordo i Gelsi nel tramonto, i campi d’erba.
Le isole di canne lì, vicino al canale.
Le case coloniche povere. Il seppellimento. I sentieri.
Il sole battendo in pieno sulla croce. La bara.
Il latino del rettore e il rumore dell'acqua
e il rumore che faceva la brezza tra le canne.
E il pergolato che faceva l'acqua entrando nei campi,
un pergolato de tronche di cristalli traboccanti,
crescendo, per terra, palpitando in contro luce.
E il ronzino, nitrendo. E quell'odore di letame,
il nobile odore di concime dalle stalle, il letame,
un mucchio di letame. E quell'odore di letame:
un odore cui o voglia dare un nome illustre.
O voglia, una voglia terribile di odorare
questo: lo sterco delle stalle ammassati in un
campo di quelli che ricordo improvvisamente in Beniferri.
Un odore che m’indica quei sentieri, molto fine,
che facevano, in scatole di scarpe, i vermi
di seta là su cespugli di timi asseccati.
La scatola di scarpe con un buco superiore.
E mio padre veniva con un sacchetto di spazzatura
che prendeva a piene mani dei margini per i conigli
e qualche volta li aveva, senza saperlo, grilli,
i grilli tra la spazzatura, e a mezzanotte, quando eravamo
tutti a letto, iniziavano a urlare e gridare,
lamentarsi tra loro, forse, di sentirsi piccoli
molto più piccoli ancora, e abbandonati, e soli
lontani dei campi, dai bordi, come me lontano dalla mia città.
Mio padre non voleva che uccidiamo i grilli.
Non ne ha mai ucciso nessuno. Non ne ho mai ucciso nessuno.
Forse ora capisco perché tutto fu così.
I grilli che non ho ucciso, ma che già sono morti,
Forse ora mi diventano dalle parole, a volte,
come vermi da seta, morente, divenivano
piccole farfalle, con un tocco domestico,
vagamente cereali, cosa di tutti i giorni.
C’è nei versi che scrivo, tra tutti i miei versi,
certe parole che ancora hanno uno non lo so di grilli:
So esattamente quelle che sono, e sono felice, e taccio ...
Non so se ho la testa tutta piena di grilli, come dicono.
Ma so che il mio cuore è tutto pieno di grilli
e le tasche anche, e se scrivo è per loro,
Per questa nostalgia che ho per un mondo verdissimo
dei bambini raccogliendo le more dal cespuglio
e dei bambini che erano seduti nel rastrello le notti
di state e gettavano quattro sassi a un cane,
dei bambini che rubavano meloni, pesche, fichi
e poi se ne andavano a mangiare tutto dentro
un mais, e mangiavano, e dormivano in seguito
e poi si lanciavano a fare il bagno nel canale
e si asciugavano al sole e ballavano grotteschi
sull’erba del margine, ed erano osceni, e ingenui.
La vita ogni giorno ci offre dei problemi.
Non è possibile risolvere loro. Sempre restano pochi
di che non possono essere risolti. I si accumulano.
Rifiuti di problemi. Dei tristissimi rifiuti.
Non è possibile prendere il cuore come si prende
L’ombelico e con un dito trarre quelli rifiuti.
E ogni giorno sono in aumento e in decomposizione.
E non è che siamo tristi. Non che siamo amari.
È ciò. Sono i rifiuti che portiamo tra il petto
e la schiena. Non pesano. Notevole, a volte.
Si noti in ogni caso con l'accento della voce,
nel modo di parlare di un dipinto, di una
musica, di una poesia o qualcosa del genere.
Come si accumula, lentamente, la polvere domestica
in alcune pieghe, in alcuni punti, e dando alla casa
innegabilmente un vago tono e tristissimo,
e alle lenzuola, e ai cristalli, ai mobili, le sedie ...
Abbiamo dimenticato cosa sono, da dove vengono e come sono stati,
quali sono stati i problemi: sono, solo, dei rifiuti
di problemi, delle cose. Questo è ciò che deve accadere
nell’apertura di una tomba in cui ci sono sepolti tanti,
uno sopra l'altro, e già confuse la polvere
le spoglie, il pezzo di calzino e il pezzo
di panno bara, già ben rotti, sciolti,
in modo che appena sappiano che lì c'era
sepolti un bambino e un uomo di settanta-
due anni e una donzella: C'è solo questo, rifiuti
rifiuti che si fondono come ceneri fra le dita
o tra le parole che dicono tutti i giorni.
Non ho altra scelta che seguire. Non volevo.
Volevo che Isabel mi dicessi che ormai era fatta
la cena così per non scrivere. Non ho voglia
di scrivere. Non vorrei scrivere a molto lungo.
"Arrivederci, Roma". Canta la canzonettista
Nell ballo all’aperto. Mia madre mi dice che prima
io scriveva meglio. Scriveva altre cose:
"Sempre cadevano in verso." Ora tutto è diverso:
parlo della morte e dei morti. Si lamenta che io scriva
così, in questo modo. Dice che alla fine
abbiamo salute e voglia di lavorare e no
dovremmo offendere Dio. "Abbiamo della salute, del lavoro.
Che cosa vogliamo di più? Dio fa le cose sempre per bene.
Basta chiedere questo, salute e lavoro"
E mio padre dice: "Certo." Ed io non so cosa dire.
E mi vengono piccole voglie di piangere.
"Arrivederci, Roma". I pini nella mia strada.
e il cortile di Sant Roc e i giardini dietro
e il monumento a Blasco, e la festa il Corpus
tra i pini delle monache, e la scala del cortile
e l'Incontro, e le trecce di Elvira, e il sentore
di gomma da cancellare, la sepoltura del Vescovo,
e quelli latini così grossi che dicevano i canonici,
e quelle colombe nel cielo incredibile del cortile
e le colombaie, le tegole, le grondaie, e i contro luce
dei vasi tra le tegole, e Marina che è leggendo
i miei versi, e Carmen, e mio padre e mia madre,
e la mia ragazza, e di nuovo i pini
di mia strada, ed io, che mi vesto blu scuro,
presiedendo quel giorno il suo funerale
sotto i pini quelli, e poi il “Trinquet”
e là stringere le mani, e dopo tutto quello.
"Arrivederci, Roma." Una ragazza in rosso
una ragazza in bianco e una ragazza in verde,
e la ragazza in bianco con la carne ferma
e ginocchi nobilissimi e i seni diritti e piccoli
e i tessuti aggiustati e la ragazza in verde
e la ragazza in rosso. "Arrivederci, Roma ..."
Ho deciso di non scrivere nulla che non sia vero.
Si ode il fischio del “Taf” proveniente da Barcellona.
Penso nella luce più in giallo che hanno tutti i treni
che fanno il loro viaggio nel pomeriggio di domenica.
Una luce giallastra di gente che ha ricevuto al mattino
questo telegramma: "Vieni. Papa è malato.».
Arrivano in silenzio alla città i treni
tristissimi della domenica, delle persone che non hanno
più scelta che prendere il treno e viaggiare
attraverso tutto il pomeriggio dorato di domenica,
quando il treno è più sporco e appiccicoso e giallo.
Ascolto. Già non suonano le trombe del ballo.
Ora c'è un grande silenzio. Isabel è andata
in cucina. Sono solo. Sono solo in ufficio.
Non c'è cosa che mi dia più tristezza che essere
nel mio ufficio di notte. Quindi ricordo
mia figlia, in quelle notti trascorse sveglio,
quelle prime notti, tutte fatte di nervi,
Di gratitudine a Dio, di stupore e de panico
vedendo quel corpo grazioso appena nato,
ed io ero solo la paura, gioia e paura
e voglia di piangere, di ridere e piangere,
ed ero qui con le braccia sul tavolo,
e non poteva scrivere, e non sapeva scrivere,
e non ne ricordavo di aver scritto prima,
e mai ho pensato che rimetterei a scrivere.
Se mia figlia vivessi, ¿avrebbe fato più versetti?
L'ascensore, l'ascensore, come mal di stomaco,
ora sale, terribile, con rumore di ferri,
con un rumore lentissimo, forse fisiologico.
Una ragazza in bianco, silenziosa e triste,
di tessuti aggiustati, un gelsomino in mano.
E quelli pomeriggi di passeggiate e silenzio.
Mia madre mai non vuole che io smetta di far versi.
A volte, se scrivo, più che altro è per lei.
E vorrei fare versi allegri e sereni,
così come lei li vuole, vagamente malinconici,
con i boschetti e le calze bianca nelle pareti
come se dovesse passare la processione di Sant
Roc o quella della Vergine di agosto, la sera,
con il profumo di mirto sparso sulla terra
e la strada spazzata e poi fatto a spruzzi
e rendere le sedie a fuori di casa tua
e vedere come la brezza muove la cortina.
I peccati che ho commesso non mi lasciano vivere in pace.
Credo che morirei di vergogna quando penso
i miei primi peccati. La memoria dei peccati
che ho commesso, che commetto, mi sembra di uccidere:
tutto terrorizzato mi lascia, tutto amaro e terrorizzato.
Le ore che ho perso e i giorni ho perso
e quelli che ora sto perdendo; le possibilità
molte che Dio mi ha dato e me da
di essere come Lui mi vuole, dalla testa ai piedi,
e le ore e i giorni e i anni che sto perdendo…
Le promesse che ho fatto, le promesse che faccio
e quei rimpianti, e questi rimpianti ...
A volte mi bruciano in face le  lacrime
Che avrei fatto piangere a mia madre, e mi bruciano,
e ricordo mia madre e io non la vorrei fare
piangere di nuovo, avere lei fatto piangere,
e la vedo piangere per strada in silenzio.
Madre. Padre. Sorella. Come hanno pianto per me,
e come piangono per me, e come pregano per me!
Signore, non chiedo te per le mie preghiere e le mie
Lacrime: chiedo te per tutto quello che pregano per me,
per tutto che piangono per me. O Signore, prendere atto di essi
fate che sia come vogliono, che sia come Tu mi voglia, Signore.
Mi bruciano per il viso, per le mani, per tutto io,
tutte, tutte le lacrime, Signore, che ho fatto piangere,
e mi sento da capo a piedi en carne viva, Signore
col corpo scottato e col cuore scottato.
Sono già un padre e mi sento ora più figlio che mai.
Non so se è perché mia figlia è morta.
So solo che mi sento più amaramente figlio.
Ti prego per mio padre ti prego per mia madre
e mia sorella. Mia figlia che sei
in cielo: guarda i tuoi nonni, fermati su di essi
come un giorno bel azzurro, e trasparente, e puro.
Sei, forse, più di loro che mia, mia figlia.
Prima di fare piangere mia madre, vorrei
Cadere in terra morto. Sono triste. Non posso più.
Mamma, Credo che già so esattamente quello che mi succede.
Tutto quello che ho è, in qualche modo,
una nostalgia brutale del tuo ventre. È come se
avesse, in qualche modo, la memoria calda
del tuo ventre, di essere stato lì benissimo.
E ', in qualche modo, un desiderio animale
di tornare al tuo ventre, e di essere lì, a caldo
e crescere nel tuo ventre e nel tuo sogno, altra volta,
di avere l'altezza della brama e il tuo ventre
di essere facendomi nel felice lavoro delle tue dita,
di essere pannolini e giorni e settimane e mesi
a percepire, dal grembo materno, tutta la tua gioia
- la voce, le mani, la lana, il tatto, le pupille-:
la gioia, la speranza, il dubbio, la paura,
dentro il mondo chiaro e inedito e nuovo del tuo ventre.
Ho tanta e tanta pena e ho tanta amarezza,
che mi giro e non vedo dove può farmi cadere,
come non sia mettendo nel tuo ventre, mamma.
Io so che vorresti, quando mi vedi così amaro,
prendermi, inghiottendo me e salvami da ogni
nelle tue viscere, il vostro benessere, più tuo che mai.
Per te vengo da una razza molto amara di amari.
Sono stato il primo nipote e il nonno mi ha portato
in braccio nella Società Colombaia
e mi metteva sul tavolo: "Mio nipote".
Io avevo appena pochi mesi. Di mattina
E 'venuto da me quando è tornato dal forno;
Una mattina l’hanno ucciso alla porta del forno;
stava lavorando. Tutta la casa era
piena di urla e persone, di caldo -è stata il mese
di Luglio-, di piangere, di graffiature con le unghie.
A volte vorrei sapere che cosa ho fatto io
quella mattina: avevo solo undici mesi
-Vedo un bambino a quattro zampe trai piedi della gente.
Forse ancora ho, non lo so, non so come dirlo,
lo stupore del bambino abbandonato, a terra,
mentre a casa c'era tanto piangere, tanto sgrido
e il nonno non era venuto come le altre mattine.
La nicchia dei miei nonni, all'ingresso, a sinistra
è una nicchia antica e verdiccia, con indizi
di edera e una targa di marmo nero e liscio.
C'è un piccolo vaso con qualche fiore.
È il pezzo più umido del cimitero, in ombra.
Di fronte, all’altro lato, la nicchia dei miei zii,
i loro figli. Nel mezzo, è mia figlia.
Quando avevo due o tre giorni solo
è morto mio zio Josep Maria: ancora
son portato da lui affinché mi conoscessi.
Manuel era morto due anni prima.
Isabel è andata a letto. C'è silenzio in casa;
c'è il silenzio assoluto. Domani, Lunedi, le persone
dovranno lavorare e ora devono dormire.
Sabato sera, è ben diversa: le persone
vano al cinema, ascoltano la radio, parlano,
l’uomo parla con sua moglie in cucina mentre lei
lava i piatti, i cucchiai, e li piace guardarla,
e la afferra e la bacia, improvvisamente, contro un muro.
Queste cose sono già note sebbene non si vedano.
E la moglie apprezza come un dono quel furore
maschio con una luce, un’umida tenerezza
negli occhi, come una lacrima, dopo essere stati sei anni
sposati, dopo aver partorito, aver lottato, sofferto
quotidianamente e domesticamente,
quando forse non aspettava di rivivere la furia
di quei giorni fidanzati –dei abbracci, dei baci,
già si sa, il cinema, in qualsiasi posto,
sentendosi tenero oggetto di bramose manciate.
Non voglio tradire quel che lotta, che soffre sonno o fame.
Non so se sia corretto o non sia corretto ciò,
citare a me stesso, trare un verso di miei versi
e metterlo prima di questo che sto per scrivere;
In ogni caso no m’importa nulla la correzione.
Altre cose m’interessano ora e mi bruciano e mi ...
Non voglio tradire quel che lotta, che soffre sonno o fame.
L’ho detto. Lo ripeto. Non rettifico nulla
Perché son dove ero e sarò dove son stato,
con i miei, con i poveri che lavorano e aspettano,
che non sanno leggere, che cadono e che biasimano
e chiedono perdono alla Vergine Maria.
La morte ha scatenato un vasto amore per loro.
Ed eccomi qui, dove ero, tra i secchi dell’immondizia
E i secchi delle cliniche, tra la povera donna
E il contabile e il ragazzo che ha rubato dove lavora
e il vedovo che geme dal corridoio e il vigile
e la donna che guarda i manifesti dei film
e la ragazza che va leggendo romanzi”rosi"
e l'acqua tra i rifiuti e i canneti e l'amore
e anche l’ira e tutti i funerari
vestiti in grigio con metri sulle spalle e per le braccia.
Ho passato delle foglie di un libretto illustrato.
Tratta de i mari d'Italia. Questo cerchio di alberi
De piccolissime foglie, felice e innumerevole,
intorno a Portofino –le case, le finestre,
le montagne, le vele- e l'Isola del Giglio,
e Ponza e più tardi il castello, l'acqua, i pini,
le vecchie pietre di Ischia, e una cappella di Capri
piena di calce o sale, tutta a base di calce
o di sale, fatta un ordine candido di calce o sale,
alzando il bollore, scricchiolando sotto il sole enorme,
e mi sono ricordato Stromboli, e ho visto il mondo amabile
e bello e mi sono sentita un’ammirazione
senza parole, tremula come una gratitudine
verso Dio. Ora mi fa male non avere me inginocchiato
come volevo -e voleva il mio corpo, la mia anima-
nel mio ufficio, qui, tra quattro pareti
nude, nel silenzio di una notte di Domenica,
tra cicche, libri, riviste e carte,
nel posto più piccolo a casa mia, per dare
a Dio, senza parole, grazie di tutto,
di Portofino e Ischia e Ponza e Capri e Giglio
e Ingrid Bergman e l'Italia e Burjassot e il corpo
di quella ragazza che mangiava delle ostriche
seduta su una roccia nell’incisione degli opuscoli.
E Taormina e Rimini e Pesaro e le vele
adriatiche, Bari e Ravello e Amalfi...
è possibile che non possa mai andare in Italia
e sento una grande voglia di stare zito, che ci sia
silenzio quando finirò, appunto, di dire alcuni nomi
-Siena, Arezzo, Pisa, Cremona, Forlì, Ravenna
Perugia, Ferrara ... -: a volte mi basta
passeggiare per la bocca, come ciottoli di ghiaia,
alcuni nomi, alcuni nomi da soli. E vedo uomini e donne
e pene e lavori e peccati e speranze
e bambini e barche e alberi e sale da pranzo e nicchie.
E mi nasce come una fina, una benigna musica
e mi viene come una luce, e non mi muoverei,
No mi sposterei di dove sono e sarebbe come sono:
è come una paura, ingenua, che, spostandomi, si rompa
un velo, un velo sottilissimo, nel mio corpo, nella mia vita:
che si rompa quest’ordine di tenerissime bave
secche di lumaca, di fili di bachi da seta,
questo mondo senza peso -se parlo, se mi muovo.
Dalla mia sporca e triste bassezza,
Voglio ringraziarti, Signore, per questi nomi
per la vita, per gli uomini, per il lutto e le disgrazie,
per la speranza, per le cose che non si possono
nominare, per la griglia che c’è sotto la pietra
per tutto ciò che è di sotto a una parola
-genitori, strade, Italia, morte, domenica, luce, Dio ...
Lo scrivo. Ti lascio scritta la mia gratitudine
sulla carta graffiata, ora che è bene di notte
ora che tutti dormono. Lo lascio qui, in silenzio.
Se potessi metterei una pietra sopra.
Grazie per la vita. Ora l’ho scoperto,
Così com'è, questa sera: come se fossi messo
La mano nel polso e avessi trovato, in un colpo
tra tutte le vene, il ticchettio delle mie pulsazioni.
È una scoperta puerile e straordinaria.
A volte vorrei fare versi nobilissimi
e dire antiche cose con piena dignità,
chiamare illustri personaggi e luoghi
e lavorare svelte metafore di sale
intercalando alcuni "Oh la luna, Oh le verdi
isole assolate": tutto questo che mi piace
leggere di alcuni poeti, e tutto sotto il segno
mozartiano di Goethe. Ma non posso. Non so.
A volte vorrei essere filosofo, avendo
un sistema. Oppure scrivere delle cose rigorosissime.
Ma forse mi piace tropo vedere la moglie
del medico quando prende il sole sulla terrazza.
Forse è lei chi ha la colpa che io non potrò mai
vedere quei desideri compiuti e soddisfatti.
M’innervosisce e appena scriverei
S. O. S. per tutte le pareti, le finestre.
Domani o dopodomani o il quattordici di giugno
di mille novecento novanta, oh Morte, verrai a me
e non potrò mi valere: farai da me quello che vuoi.
Una cosa ti chiedo e voglio che non dimentichi:
Voglio solo che mi abbatta in un’ora che permetta
di seppellirmi a mezzogiorno, senza avere bisogno
essere un tempo nel Serbatoio: ho paura a pensare
che forse, quando morirò, sarò qualche ora
il limite di legge, là, solo, nel Serbatoio.
Io voglio, Morte, che mi seppelliscono subito: lo sai.
Penso alla cattedrale di Leon: la ricordo
di notte, di mattino, a mezzogiorno, al tramonto,
dando corpo a un'idea che si ha dalla musica
di Beethoven, e poi penso a Garcilaso
Ricordo di una sveltezza, ricordando l’altezza
della cattedrale di Ávila, e le fonti e i verdi di Ávila,
e quelli branchi di pietre, e quelli blu, e le colline,
la cattedrale romanica di Zamora, e il sole,
e le pietre calde e croccanti come
il pane appena cotto quando cade nei cestelli,
e un'atmosfera tale a forno, di pane appena
sfornato, di caldo morbido, e poi Salamanca,
le Cattedrali e l’aria e i tori tra i rami,
e Ávila di nuovo e il blu dei campi in Bétera,
le blu lontananze, rosate per un attimo
e grigi e più blu e più blu e più grigi.
Tutto il giorno di caccia con il padre, quel giorno
terribile di ponente. E i pini di Porta-Coeli.
E il burrone. Per tutto il giorno in giro
padre e figlio. Tutto il giorno terribile di ponente.
E di là dai forni da calce. E il pane che, per il ponente
pungendo nelle gengive, faceva male sulla lingua.
L'aria, come fiamme, si metteva nel naso
E bolliva il cervello, con i colpi contro le ossa
del cranio, per tutto il giorno, ei occhi a farti del male,
sembrava che volevano uscire via da te le ossa
della faccia. E abbi delle grandi voglie
di urinare e urinavi solo quattro gocce.
Una goccia di urina persistita in un giunco
Lo faceva vibrare e poi lo piegava.
E la goccia era un luogo di contro luce dove il sole
insisteva, insisteva, si rendeva quasi gravido.
Il figlio in seguito al padre, tutto il giorno, di caccia.
L'illusione del padre, il silenzio dei due
Avvicinandosi a un cespuglio, e il sasso lanciato
al cespuglio, e l’attesa, e di nuovo su
e giù. I sandali sventrati, rotti.
E questo mal di testa. E la sete. E il ponente.
Tutte le gambe piene di sgraffiature e di polvere.
E il treno. E il bambino addormentato contro la spalla del padre.
E la mano grande del padre, ruvida e soave e tremula,
a schiarire i capelli disordinati del figlio.
Il silenzio del padre, che non aveva cacciato
nulla, i due in silenzio, il figlio dormendo, il padre
taciuto, tornando a casa, e il figlio guardando il padre:
"Il piviere, penso di aver colpito un’ala ..."
E il silenzio del padre, che non era riuscito
davanti al figlio, e il figlio con un’oscura pena.
Oggi, Domenica, un padre sarà andato a un asilo
per portarli qualche caramella a suo figlio; una madre
con lutto andrà per la strada con un figlio
alto e magro, con vergogna -quella madre, quel
figlio che ti causano, nel vedere loro, un dolore, una nascosta
tenerezza-; una donzella non lo sarà più;
alcun funzionario sarà trascorso il giorno
vestito sul letto di qualsiasi pensione,
ricordando il suo paese, forse una fidanzata
che ha avuto, forse il suo letto di canonico;
un marito avrà voglia di piangere guardando
sua moglie poiché non avrà nessun dubbio
di nulla di tutto quello e piangerà guardando
i loro figli, la levatrice sarà nervosa,
andrà al telefono, chiamerà il suo amante
lasciando la partoriente tutta piena di urla;
il sacerdote tratterà che sua madre
capisci che non deve pensare quello che pensa
del medico de l’angolo con quella ragazza bionda;
la portinaia avrà visto uscire quella del terzo piano
e avrà detto che non sa come il marito è
così pazzo con essa, magra e con una testa troppo grossa;
una madre sarà stata a casa di suo figlio
con delle salsicce, con un pezzo di torta,
e avrà lavato le vesti, perché sua nuora
sia più tranquilla; un fidanzato avrà calcolato
con la mano in tasca tutti i soldi che avevi;
una ragazza in bianco avrà lasciato che il promesso
baci lei in bocca per la prima volta;
ci saranno musiche povere e il vino delle taverne;
una donna sarà uscita sgridando nella strada
e suo marito dietro brandendo un coltello
e i tre figli appoggiati sul balcone pieni di pianti;
l’adolescente che ascolta le musiche di Gershwin.
con il suo apparecchio di galena; e la madre
che prega San Pancrazio sostenendo uno stampato
santino contro una brocca; e ci sarà chi scrive versi
e li mette in pulita con una calligrafia nobile,
ritardandosi nelle curve, a sentirsi soddisfatto,
e si ripete tali versi, e poi si sente triste,
e vorrei essere vicino a sua cugina
e sentire contro il suo il corpo bruno della ragazza,
sentirlo come una brocca morbida, fresca, esultante;
e l'aria nella cortina. Questo mese non potrò
andare al cimitero, mia sorella sarà
con qualsiasi amica; per la prima volta
Non andrò al cimitero per portare dei fiori,
mettere dei fiori nella nicchia di mia figlia.
In face alla nicchia c’è un cipresso sveltissimo.
Voglio che quando sarò morto mi seppelliscono lì,
non già ai piedi del cipresso: voglio dire ai piedi della nicchia
dove il piccolo corpo di mia piccola figlia,
e averla nella testiera, e avere nella testiera
un angelo, il mio angelo, come se lei avrebbe
di svegliarmi il giorno del Giudizio Finale,
Come svegliava me tanti giorni prima.
Ha due ali, come le hanno tutti gli angeli:
a volte le penso come dei cognomi già assunti.
Ma voglio non mi seppellire in una nicchia, sulla terra,
no per umiltà: solo per quello che ho di padre,
un padre che voleva andare per quattro zampe
con la figlia addosso per tutto il corridoio:
un padre che voleva ruzzolare sul pavimento
e giocare con la figlia ruzzolando sul pavimento.
Voglio che mi lascino in terra quando morirò. Vorrei
che questo desiderio che dico fosse per umiltà.
Ma non è per ciò, è per quello che ho di padre.
Da Padre de un figlio morto. Da un figlio già sepolto.
Detto in modo barbaro: so che Dio si prende cura.
Dormiranno i vicini dal quinto piano: Lei deve
dormire animalmente, con le lenzuola sopra,
verso il cielo, con le braccia incrociate dietro la nuca.
Il marito dormirà di fianco: al lato
a destra, con il gomito destro messo sotto il cuscino.
I residenti del primo - "Oh, que tal, como está" -
Forse torneranno dal cinema, dal caffè;
lei andrà per casa in camicia, con scarpe
di tacchi alti, mentre si gratta un gluteo o la schiena.
Lui, può darsi, già sarà in letto. Non hanno figli.
Lei ha una gran voglia di avere dei figli. Egli tace.
Lei bacia, con baci enormi, i bambini.
Appena sono in casa. Hanno degli amici. Escono.
Sempre rientrano di notte. Soprattutto il sabato
tornano tardi. Al quarto piano vi è un vecchio. Appena un anno fa
che è morta la donna. Vive da solo. Non parla
quasi mai con nessuno. Vengono, di volta in volta,
due monache. Una, quella più giovane e più bianca,
è sua figlia. La riceve nervoso, come un bambino.
Guarda sua figlia. Non so cosa dire: solo
guarda sua figlia. A volte, vorrebbe
prenderli le mani; si contiene con molti sforzi.
A volte, vorrebbe prendere le sue mani
e inginocchiarsi a terra. Egli si contiene a malapena.
Poi, discretamente, l’altra monaca dà
per capire che è troppo tardi. Egli rimane più solo.
Va in casa, da solo, e piangendo, come un gatto,
come il gatto dimenticato in casa, quando arriva
l’estate alla famiglia chiude e va al suo paese.
La casa con un odore di "cicche" sul pavimento
e in certi luoghi il profumo che lasciano le monache.
E la donna incinta che sente il bambino crescere
nelle loro viscere, e la donna, sveglia,
che sente il figlio rompersi tutte le mattine
da diciotto mesi adesso; e il rubinetto, in cucina
che non chiude bene e cadono gocce di volta in volta,
e il figlio che piange nel sonno, e il figlio che muore e genitore
che non sanno che muore, accanto a lui, lì,
e la ragazza che ama Eusebio, e la cameriera
cui fanno male le ossa, e il ragazzo del negozio
che dorme come un sasso. E il silenzio assoluto:
un silenzio di nicchia libera ancora,
ma è stata acquistata, ancora vuota, lì
tra nicchie già con morti. Vedo le nicchie, le nicchie
ancore vuote, ancora senza morti, e ormai vecchie
quando vado al cimitero. E di un tratto, in ufficio,
stasera mi so all'interno di una nicchia di quelle,
e mi vengono delle voglie orribili di piangere,
e tutti dormono, ed è giusto che tutti dormano, lo so,
e questo nessuna nicchia, questo è il mio ufficio.
E mi sento, senza bara, piegato in una nicchia
ancora vivo, lo so, e non posso evitarlo.
E ora andrei urlando per la casa
e con questo non saprei se io sono ancora vivo,
neanche se Isabel mi dissi che io sono vivo,
neanche se i vicini lasciassero i loro letti
e salissero a casa e mi dicessero che sono
vivo e che sono in casa. E non oso toccarmi,
e non oso guardare me, e ho paura, e ho voglia
di pregare, e non posso, ho paura di me stesso,
chiudo gli occhi per non vedere. E penso le pareti
bianche del cimitero in Burjassot, lì per dove
entravano i cadaveri, e ricordo la paura
che aveva a toccarli e come chiudeva gli occhi
Per non vedere il Serbatoio, lì, entrando a destra.
L’autopsia del nonno, lì, sotto il sole
feroce di luglio, e il sangue e le mosche,
e la polvere del sentiero, e il sangue altra volta,
e materie gialle, e materie grigie
e tutte appiccicose, e la polvere, e le mosche
E la pace della seccagna calma nel mezzogiorno
e il colpo, il colpo piccolo della lama di una singola
zappa che, così lontana, da sola, colpisce in una pietra.
Le calze delle pareti e il sangue dell'autopsia.
Il fuggitivo clamore, come di seta rotta,
come di un velo strappato, degli uccelli, delle ali.
E silenzio di nuovo. L'ascensore, l'ascensore
ora sale, lentissimo e notturno, funerale:
forse c'è alcun malato, viene un medico forse
forse viene il funerario con un metro gettato
sopra la spalla con una matita nell’orecchio,
o con una sigaretta spenta tra le labbra,
e forse porta una bara, e dei legni, e degli stracci
neri e gialli. E sale l’ascensore. E lo ascolto.
E ancora non si ferma. E sale. E ancora sale.
E non mi può muovere e uscire e aprire la porta
e sporgermi sulle scale. E sale l’ascensore:
continua a salire. Non dovrebbero restarne
più piani, ma ancora lo sento salire, lentissimo.
Ora lo sento sopra la mia testa, e gravita
sopra il mio cervello tutto il chiasso dei ferri.
E vorrei tornare indietro e vivere in Burjassot
vedere dal balcone della casa in cui sono nato
una colombaia, le tegole e oltre i pini delle monache.
E sono qui. E non posso. Io non posso fare niente.
Questo è il mio posto. Devo rimanere qui,
tra miseria e panico, tra fallimento e attesa.
Vado palpando le pareti del corridoio, al buio.
Mi viene il panico improvviso. Viene su dalle dita.
Ho paura delle pareti. Madre, padre ... ! Non posso.
C’è improvvisamente un silenzio, asciutto, totale, assoluto.
No se ode nulla. Niente. Tutti sono, ora, nelle loro nicchie.
Il corridoio è lungo. È più ampio che mai.
È anche più lungo che mai. Evito le pareti.
Camino nel buio del corridoio notturno.
All'improvviso credo che l'ascensore non è sceso
e non si è sentito aprire o chiudere una porta,
e forse è, fermo, in un luogo della scala,
in un qualsiasi piano, ovviamente sinistro
con la sua luce giallastra tra l’oscurità:
pronto, come se aspettasse, calmo e funerale.
Con la sua luce giallastra in mezzo al buio.
Attento in qualche modo. O semplicemente pronto.

Francesc Collado, Foios  juny 2013
(Vaig acabar la traducció de Coral Romput de Vicent Andrés Estellés a l'italià a Foios, País Valencià, juny 2013).

A l'entrada de Coral Romput :
- Podreu trobar la versió original de Coral Romput en català,
- i també l'enregistrament de l'Ovidi: Ovidi Montllor diu Coral Romput de Vicent Andrés Estellés, acompanyat a la guitarra per Toti Soler  

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